19 febbraio 2024

Nel museo coloniale decolonizzato: l’intervista a Christophe Boltanski

L’intervista a Christophe Boltanski a cura di Jessica Chia su La Lettura, Corriere della Sera.

Da Leopoldo II, il museo di Tervuren si è trasformato – racconta Boltanski – prima in museo etnografico, poi di belle arti. Nel 2013 è stato “decolonizzato”, e io analizzo quei tentativi che, secondo me, passano più attraverso l’oblio che attraverso la memoria.


Per esempio, spiega l’autore, ci sono statue ‘imbarazzanti’ nei sotterranei, “ma il paradosso è che sono la prima cosa che si vede entrando”. È il nuovo sistema, nato con il restauro, che serve a evitare l’ingresso principale, dove si trovano altre statue in bronzo che sono le più caricaturali di quest’arte coloniale, ma non possono essere spostate. “Hanno cercato di ‘neutralizzarle’ prima esponendo davanti opere di arte contemporanea africana. Ma non bastava: così hanno messo dei veli per coprirle. Ma il velo è ambiguo perché dissimula, nasconde, e al contempo sacralizza e suscita curiosità. Nel libro provo a raccontare tutti questi tentativi ed errori”.

L’autore riflette poi sul ‘decolonizzare’ un’istituzione d’arte: “In Francia abbiamo almeno 12 mila musei, ma nessuno si occupa di storia coloniale, anche se su questa si basa la nostra modernità. Forse il museo di Tervuren sarebbe dovuto passare da museo coloniale a museo della storia coloniale, una sorta di ‘metamuseo’. Nella sua concezione originaria, rifletteva la visione coloniale che avevamo del Congo, ed è interessante proprio per questo. Allora un apparato esplicativo sarebbe stato utile, anziché cercare di trasformalo in altro”.

L’autore passa la notte al museo su una branda, racconta, davanti a un elefante chiamato King Kasai, nome della provincia congolese dove fu catturato: “Immenso, maestoso, alto 7 metri. Ho avuto la sensazione, fin da subito, che il tema della caccia fosse centrale a Tervuren, non solo per gli animali imbalsamati che ospita, ma perché gli oggetti di caccia, prima di diventare oggetti d’arte, erano stati dei trofei. E la caccia era un modo di appropriarsi di un territorio”. […]

Il volume si ispira anche a due riferimenti letterari diversi tra loro: Cuore di tenebra di Joseph Conrad e Tintin in Congo, e per realizzarlo l’autore ha visitato Tervuren, a cui si ispira per tutti i disegni, come la statua dell’uomo-leopardo, commissionata da tra il 1915 e il 1920 dal Ministére des Colonies: “Aveva la funzione di spaventare, di mostrare l’Africa delle tenebre, selvaggia. L’album di Tintin trasmette i cliché razzisti dell’epoca”.

“Sono legittimato ad accostarmi a questa storia? – prosegue nella sua riflessione Boltanski -. Non sono congolese e non sono belga, ma credo che questa sia la storia della nostra rappresentazione del Congo; una storia europea”. E poi: “Oggi si mette in discussione non solo l’approccio museale, ma soprattutto l’origine delle collezioni. C’è poi la questioni della restituzione delle opere: se le restituiamo, i nostri musei diventeranno vuoti; ma non è questo il punto. Possediamo migliaia di oggetti etnografici, e questo va oltre il semplice collezionismo. Macron ha commissionato, nel 2018, il rapporto Sarr-Savoy che ha scoperto che il 90% del patrimonio africano si trova al dì fuori dell’Africa. La restituzione deve essere collocata in un contesto di enorme predazione”.

L’autore lo conferma con un ultimo esempio: a Tervuren c’è una ‘statua a chiodi’, una sorta di feticcio che proteggeva un villaggio sul fiume Congo. La targa che la descrive dice collected, cioè raccolta, da Alexandre Delcommune, un avventuriero che nelle sue testimonianze raccontò di aver bruciato e depredato quella comunità. “Il termine da usare dovrebbe essere: “rubata”. In effetti, poi, il museo ha cambiato la targa con seized: prendere, impadronirsi”. Altra parola per raccontare questa storia.

Qui potete trovare l’intervista completa su La Lettura:
https://drive.google.com/file/d/1gAPcQt-k5XgY2x_8EWoqz_9h4xQGXwq5/view

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