17 luglio 2023

Morte per paesaggio: un’intervista a Elvia Wilk

Morte per paesaggio: l’intervista a Elvia Wilk a cura di Vincenzo Latronico su Il Tascabile.

È da poco uscito per ADD Editore Narrazioni dell’estinzione, di Elvia Wilk: una raccolta di saggi che discute di donne che diventano paesaggio o si innamorano di un buco nero, larping di vampiri, mistica medievale, terapia per il trauma, fine del mondo. Ma “raccolta” è un termine improprio, e la lista di temi tanto disparati rende giustizia all’ampiezza del progetto di Wilk ma non alla sua coerenza interna: per molti versi Narrazioni dell’estinzione è una singola, folgorante esplorazione della soglia dell’indicibilità, quel confine incerto fra parola e mondo che eventi come la catastrofe climatica mostrano in tutta la sua ristrettezza.

Non è la prima volta che Wilk si avvicina a questi temi. Il suo primo romanzo Oval (pubblicato in Italia da Zona42 nella splendida traduzione di Chiara Reali) era una fantascienza morbida ambientata in un futuro a due passi dall’oggi. La trama includeva una storia d’amore fallita, il collasso di un ecovillaggio in cima a una montagna artificiale nel cuore di Berlino, e l’invenzione di un tipo di ecstasy volto a infondere a chi lo assume un picco di empatia; ma il punto a cui tendeva ogni filo narrativo era l’incompatibilità fra l’ordine del linguaggio (le eco-tecnologie, i valori professati dall’elite culturale) e l’ordine del mondo (le bioarchitetture che marciscono, la necessità di drogarsi per essere generosi). È questa incompatibilità che, in Narrazioni dell’estinzione, esplode.

Il libro si legge come una specie di indagine, che da un mistero piccolissimo espande il proprio campo d’inchiesta: cosa si cela dietro il topos narrativo (usato da Margaret Atwood in Morte per paesaggio, che in inglese dà il titolo al volume, ma anche da Han Kang e, millenni prima, da Ovidio) della trasformazione di una donna in pianta? Come è accaduto a James Frazer, che per spiegare un singolo dettaglio dell’Eneide si è trovato a dover tirare su l’impalcatura di una disciplina intera, la ricerca di Wilk finisce per espandere lentamente il campo, dalle piante ai pianeti, dai pianeti ai buchi neri. Lì, in un collasso che è sia epistemologico che linguistico, il campo si inverte, e i saggi si fanno rigorosamente, quasi ossessivamente esperienziali: trauma, larping, pandemia.

Se negli anni Sessanta si diceva che “il personale è politico” perché i confini del primo sono determinati dal secondo (che in fondo è la nozione rivoluzionaria ma semplice celata dietro la pomposità di un termine come biopolitica), la scoperta che appare gradualmente lungo la ricerca di Wilk è che quei confini non esistono. Anche solo la pensabilità dei problemi che ci troviamo a dover affrontare come collettività dipende da questa presa di coscienza. Che comincia – come il più classico degli hard boiled – con una donna che scompare.

Vincenzo Latronico: Una delle cose che mi ha colpito di più nella lettura del tuo libro è che inizia come una raccolta di saggi letterari, diciamo, tradizionali. Ma poi qualcosa cambia; la prospettiva che si ha come lettore è che la tua indagine supera la forma iniziale: non era sufficiente per dire quello che volevi dire. Corrisponde effettivamente al modo in cui il libro si è evoluto?

Elvia Wilk: Sì e no. In parte si è trattato di un processo involontario, iniziare con un contenitore più piccolo per poi esplodere ripetutamente al di fuori di esso. E in parte volevo che tutta una serie di cambiamenti si verificasse quasi di soppiatto nel corso del libro. Una cosa che mi interessa nella scrittura è tirar dentro chi legge usando una forma o un genere o una tecnica abbastanza riconoscibile, e poi condurlo lentamente fuori da quello spazio.

Non si tratta di ingannare il lettore o di colpirlo alle spalle: penso che sia come quando pattini e improvvisamente guardi il cielo invece del ghiaccio che hai subito davanti. È un momento emozionante perché ti rendi conto che il paesaggio era molto più vasto di quanto pensassi.

VL: La cosa inquietante che accade in quel momento, però, è che a forza di farsi sempre più vasto il paesaggio collassa su se stesso: si passa dall’universo a te in quanto individuo, poi a te in quanto te.

EW: Sì, si allarga: Non posso fare a meno di far parte della cornice, perché alla fine il meccanismo centrale che tiene insieme il corpo del testo sono io e il mio corpo. Diventa più personale. Nella terza sezione i saggi sono i più sperimentali e strani, ma sono anche più tradizionalmente relatable: è facile rivedercisi. È un onere soprattutto per le scrittrici: dobbiamo invitare i lettori a rispecchiarsi nella nostra esperienza se vogliamo che accedano alla nostra argomentazione. Ma direi che i miei saggi sono anche un po’ più strani del tipico saggio personale femminile. Mi sembra difficile che ci si rispecchi del tutto.

VL: Credo che una delle cose che incoraggia il rispecchiamento è che il lettore si sente come se tu stessi esplorando con lui piuttosto che guidarlo. La conoscenza mistica e corporea che è al centro dell’ultima sezione del libro non mi sembra qualcosa che ti viene naturale. Devi delinearla, per dir così, andando contro a ogni tua abitudine. E questo è ciò che ci fa sentire in sintonia.

EW: Scrivere questo libro è stato trasformativo per me. In parte parla di come la mia vita di scrittrice sia gemellata alla mia vita di persona: la nega, le si oppone, ma d’altra parte la mantiene. La corporeità arriva alla fine perché mi ci vuole un po’ per prendere coscienza di questo altro tipo di conoscenza, appunto. E mi è possibile perché all’inizio gli strumenti che uso sono gli altri: la conoscenza storica, la conoscenza letteraria, le esperienze sociali, poi la memoria fisica. Nella prima sezione guardo ai viaggi mistici, in cui le donne usano il loro corpo come fonte di prova o di conoscenza o di autorità, con un approccio più teorico, quasi accademico. Ma poi finisco per parlare della mia esperienza nella terapia del trauma usando l’E M D R, che è un metodo al confine tra mente e corpo. Scrivo anche di realtà virtuale e giochi di ruolo, che sono anch’essi esperienze corporee. Accedo ai testi che prima consideravo come bibliografia, come qualcosa di diverso: inizio a praticare ciò che stavo teorizzando.

VL: Nel saggio finale, all’improvviso, il lettore si trova nel mondo reale; fuori imperversa la pandemia; il narratore che dice “io” sei davvero tu. Come si inserisce nell’arco che hai appena descritto?

EW: È una storia, semplicemente una storia. Gli altri saggi sono come mattoni che impilo per costruire un’idea complessiva: lavoro sodo, faccio girare i miei ingranaggi; ma questo saggio è una narrazione. Porta da un luogo a un altro. È anche libero dall’illusione della distanza narrativa, perché il suo narratore è chiaramente abbastanza vicino a me, mentre negli altri il narratore è più costruito. Nell’epilogo, invece, il narratore è molto meno costruito. Questo è un enorme sollievo per me, e forse anche per il lettore. Questo è stato l’unico saggio facile o veramente piacevole da scrivere, in cui mi sono lasciata portare. È il più tenero e vulnerabile, ma in qualche modo è anche il più leggero. È come se si muovesse più velocemente. Richiede di soffermarsi meno sulle cose difficili.

VL: E qual è stato il più difficile? C’è in qualche modo un grande snodo tra le prime due sezioni e la terza – un po’ come se l’astrazione si solidificasse nella concretezza… Ha senso quello che sto dicendo?

EW: Sì. Il saggio impossibile da scrivere arriva a metà, come una sorta di fulcro, ed è quello  che riguarda i buchi neri – si chiama Fun Hole. È un saggio che nessuno ha mai tirato fuori nelle interviste. Penso che sia perché è un saggio impossibile e riguarda l’impossibilità della creazione di significato. Per me è il saggio su cui si basa il libro, dopo il quale non ho altra scelta se non quella di trovare un’altra modalità di conoscenza, perché la mia ricerca viene inghiottita da un buco nero. Ed è il saggio a cui ho dedicato più tempo, anche se sembra il meno importante dal punto di vista tematico.

Sono partita da un’idea molto chiara: ci sono due romanzi che parlano di donne che si innamorano di un buco nero. Volevo capire come funzionavano. Quando ho parlato con gli autori, mi hanno detto: “Oh mio Dio, ero terrorizzata che uscisse un altro libro su un’esperienza erotica con un buco nero – pensavo di essere l’unica ad avere questa idea!” E naturalmente questo è parte del problema: sono finiti entrambi in un buco nero, e nessuno di questi libri funziona davvero come romanzo. Però fanno qualcosa di straordinario. Sono testi mistici, credo.

E guardando quei libri troppo a lungo ho avuto la stessa esperienza dei due autori: “Cazzo, questo progetto è impossibile”. Parte del problema era che il mio approccio normale era leggere tutto il possibile sui buchi neri; ma in questo caso non avrebbe avuto alcun senso.

Alla fine l’unico testo che mi ha aiutato è stato quello di Anne Carson su Giovanna d’Arco e la negazione di ogni significato linguistico. La vera tradizione mistica porta a una rottura totale della significazione. A quel punto si crea una catastrofe, e quella catastrofe è rivoluzionaria. Per me è stato davvero trasformativo. Con quel saggio ho toccato il fondo, un fondo strano: “Questo saggio è un fottuto buco nero. Nessuno dei miei strumenti funziona”.

VL: Ma funzionano! Alla fine il saggio lo hai scritto – e questa lotta, che concettualmente rendi molto chiara, non è così evidente a chi legge. Per molti versi, direi che se non viene menzionato o discusso come vorresti è anche perché colpisce il lettore come “perfetto”, cioè completo, chiuso in se stesso. Non c’è nulla da aggiungere, se non andare avanti e cambiare drasticamente passo, come hai fatto tu.

EW: La scrittura è un luogo in cui si può perseguire la rottura della significazione, nonostante il paradosso di usare lo strumento della scrittura per arrivare a un punto in cui la scrittura è inadeguata. È un nodo centrale del mio progetto ed è un nodo centrale nel progetto mistico. La mistica rifiuta il significato metaforico – questa esperienza non “sta per” qualcosa, è qualcosa – e anche a me interessa il significato letterale, ed è per questo che guardo alla narrativa di genere. No, questa persona che scompare nel paesaggio, come nel racconto di Margaret Atwood da cui il libro prende il titolo, non è una metafora. È qualcosa che accade nella storia e che è permesso solo nella fantascienza o nel fantasy, perché se si tratta di realismo, deve essere leggibile come metafora. Sono stufa del realismo! C’è una citazione molto bella che stavo pensando di usare come epigrafe per il mio nuovo libro. È di Sophia Samar: “Salviamo il quotidiano dalle grinfie del plausibile”.

In questo senso, il buco nero è anche una perfetta rappresentazione – letterale, non metaforica – del modo in cui costruiamo un testo. JR Carpenter ha scritto molto sui paragrafi come isole, su come la struttura del saggio crei nel testo nel testo dei vuoti impossibili, indicando ciò che può e non può essere detto. Chiunque scriva narrativa sa che ciò che non si dice è più importante di ciò che si dice: il mostro che non si descrive è più spaventoso di quello che si descrive. La rottura della significazione, della conoscibilità, è un mostro terrificante. È una catastrofe. È una catastrofe per noi. E forse rifletterci è un primo passo per affrontare altre catastrofi, come – non voglio esagerare – la fine del mondo e l’estinzione di massa. Quella sì che è una catastrofe del significato.

Qui potete trovare l’articolo completo di Il Tascabile: https://www.iltascabile.com/letterature/morte-per-paesaggio/

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