22 marzo 2024

Essere femministe a Pechino: l’intervista a Leta Hong Fincher

L’intervista a Leta Hong Fincher a cura di Adelaide Barigozzi su Elle.

Nel Paese più controllato al mondo difendere il diritto di non essere molestate è un reato. Leta Hong Fincher parla di un movimento che ha fatto della resilienza la sua forza. E di cinque ragazze coraggiose.

«Quando ho scritto il libro nel 2018 avevo molta paura di cosa sarebbe successo in futuro al movimento, considerate le difficoltà. Oggi, però, posso dire che è davvero notevole quanto le sue idee siano diventate popolari e mainstream in Cina. La repressione continua, ed è molto brutale, ma la resilienza del femminismo cinese è straordinaria, e questo per me è estremamente incoraggiante».

Al centro delle lotte delle donne cinesi c’è ancora il grave problema delle violenze sessuali, ma anche il dogma dell’autorità genitoriale cui ogni figlia femmina è tenuta a sottomettersi e lo stigma che colpisce le nubili, considerate “donne scarto”. Ma perché tanta durezza contro chi rivendica diritti fondamentali, basati su un concetto di parità di genere che lo stesso Mao riconosceva?

«In Cina a venire oppressa è tutta la società civile, non solo il movimento femminista, ma quest’ultimo ha una sua specificità: è l’unico in grado di influire sul comportamento di decine di milioni di giovani donne istruite, donne che il Governo con l’adozione nel 2016 della politica dei tre figli, vuole spingere a sposarsi e ad avere più bambini, che è poi l’obiettivo della sua attuale strategia di crescita demografica. Grazie a questa nuova consapevolezza moltissime ragazze ora dicono no a tale pressione e ciò viene visto come una minaccia alla stabilità sociale».

Di fatto, recentemente nel Paese c’è stato un crollo dei matrimoni e delle nascite, tanto che la Cina è stata superata dall’India in quanto a popolosità. In un regime basato sul controllo capillare dei cittadini non è facile far emergere rivendicazioni e proteste. Le femministe cinesi, però, negli anni hanno necessariamente dimostrato un’incredibile creatività. Ai tempi dall’arresto delle Fem Five, per chiederne la liberazione molte utenti avevano iniziato a pubblicare sui social foto di donne per strada con una maschera che rappresentava il volto di una delle detenute. Due anni prima, l’attivista Xiao Meili aveva percorso duemila chilometri attraverso il Paese per sensibilizzare sulla violenza sessuale. Più tardi, lo scoppio del #MeToo in Cina ha coinvolto le università, il mondo del lavoro e dello sport: clamorosa la denuncia di Peng Shuai che ha accusato di stupro un alto funzionario, in seguito alla quale la tennista è stata fatta sparire dalla scena. Per eludere la censura, la femminista Qiqi ricorse allora al trucco di usare gli emoji della scodella di riso ( mi ) e del coniglio ( tu ), due parole che in cinese suonano come Me Too. La stessa Li Maizi delle Fem Five prima di rifugiarsi negli Usa aveva ideato delle performance contro la violenza domestica in cui indossava un abito nuziale macchiato di sangue. Come in altri Paesi, anche in Cina a esporsi in prima linea sono soprattutto donne giovanissime, anche a costo di pagare un prezzo salato.

«Alla fine del 2022, in varie città sono scoppiate le White paper protests contro il prolungato lockdown: i manifestanti brandivano fogli di carta bianchi per simboleggiare l’oppressione e la censura, e tra loro c’erano tantissime ragazze, ma la cosa che più colpisce è che moltissime furono arrestate, come se la polizia le avesse prese di mira. Dalle notizie che sono trapelate, sembra che gli agenti chiedessero loro esplicitamente se fossero femministe, avvertendole che in quel caso erano solo uno strumento nelle mani di forze straniere ostili. Sebbene questo tipo di fermi di solito non comportino lunghe pene detentive, le modalità degli interrogatori sono molto simili a quelle usate per le Fem Five nel 2015: la strategia dello Stato cinese è identificare le femministe come sovversive e reprimerle brutalmente». Un caso esemplare è quello della giornalista e attivista Sophia Huang Xueqin, incarcerata nel 2021 e tuttora detenuta. «Di recente, è stata processata per sovversione e questo dopo due anni che si trovava in carcere; ancora non sappiamo quale sia il verdetto».

Mentre a Pechino e Guangzhou si resiste, le comunità di esuli all’estero si organizzano: l’ultima forma di protesta che sta conquistando le giovani (ma non solo) cinesi negli Stati Uniti, in Canada e in Europa, è una sorta di stand up comedy di denuncia. «È una novità di quest’ultimo anno, in Europa al momento è presente a Londra. I cinesi la chiamano “commedia femminista”, ma è molto di più», dice Hong Fincher. «A livello superficiale fa ridere, la propaganda cinese è così sessista da risultare ridicola senza che ci sia nemmeno bisogno di inventare delle battute, ma basta assistere a uno di questi eventi per capire che si tratta soprattutto di uno stratagemma per incoraggiare il risveglio politico femminista, ma anche delle comunità queer e lgbtq+». Come in un open mic, tutti possono iscriversi e parlare della propria vita, ma i temi toccano soprattutto questioni delicate come denunce di molestie sessuali, disagi della quotidianità degli immigrati, ricordi di arresti e abusi da parte della polizia cinese. «Se vuoi salire sul palco, perlomeno qui a New York, prima devi mandare un copione o una descrizione di quello che dirai, e ci sono anche dei redattori per i testi», dice Hong Fincher. Che conclude: «Certo, si ride, ma fino a un certo punto. Molte persone hanno storie davvero tragiche e scioccanti da raccontare, esperienze terribili che hanno vissuto sulla loro pelle».

Qui potete trovare l’intervista completa su Elle: https://drive.google.com/file/d/1IWdj07YXuY6-JBRkw-2MI1Aq0coRZb19/view

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