2 febbraio 2024

Basta megalopoli. Facciamole a pezzi: l’intervista a Carlos Moreno

L’intervista a Carlos Moreno a cura di Stefano Montefiori su La Lettura del Corriere della Sera.

Mi piace il sottotitolo dell’edizione italiana del mio libro, Per una cultura urbana democratica. Spiega molto del mio lavoro.

Professor Moreno, com’è arrivato a identificare la formula della “città dei 15 minuti”, cioè avvicinare i servizi al cittadino in modo che possa trovare ciò di cui ha bisogno per studiare, lavorare, divertirsi, andare dal medico o fare la spesa, nello spazio di un quarto d’ora?
Il mio percorso intellettuale comincia con le scienze dure, con la matematica. Devo molto a Egdar Morin che, con il suo concetto della complessità, ha davvero illuminato il mio percorso. Mi sono quindi avvicinato all’architettura, all’urbanistica, ho cominciato a lavorare sulle infrastrutture e sulle città.

Lei è stato uno dei pionieri dell’idea di ‘città intelligenti’.
Ho sviluppato un certo numero di piattaforme digitali per la città. Ma ho capito presto che affidarsi solo alla tecnologia per risolvere i problemi molto complessi delle città ci avrebbe portato fuori strada.

Perché hai abbandonato l’approccio incentrato sulla tecnologia?
Ho capito che la soluzione non stava nelle infrastrutture, nello spostare i cittadini nel modo più veloce possibile tra due punti distanti, ma nella prossimità. Fare in modo che siano i servizi a spostarsi vicino al cittadino. Politica di prossimità significa lotta contro la segregazione e contro la gentrificazione. Significa puntare su una città che abbia una dimensione umana.

All’inizio del libro lei cita Italo Calvino e Le città invisibili. Perché Calvino è importante per lei?
Calvino è uno scrittore visionare e Le città invisibili è un libro di riferimento per me anche se pubblicato tanto tempo fa, nel 1972. È un condensato di riflessioni molto profonde su cosa sia una città. Mi ha molto colpito quella sua frase: “D’una città godi le sette o la settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”. Calvino mi ha spinto a re-immaginare la città, a costruire una nuova narrativa che renda la città capace di dare spazio ai nostri desideri e rispondere alle nostre paure. Tutti i cittadini del mondo capiscono che cosa significa ‘la città dei 15 minuti’, ovvero rendere la città più umana, avvicinare i servizi, creare e favorire legami sociali, recuperare lo spazio pubblico e in questo modo rispondere anche alla crisi climatica. La città come democrazia, progresso della donna, rispetto dell’ambiente e anche risposta a paure come quella dei migranti.

Lei racconta nel libro di essere “figlio di un contadino della Cordigliera delle Ande che si è visto espropriare le terre”. “Così sono nato in città”, scrive. Come spiega l’interesse universale dell’idea urbanistica di un figlio di contadini colombiani? ‘La città dei 15 minuti’ è studiata dall’America all’Africa all’Europa, da Parigi a Milano a Kigali, in Ruanda.
Credo che ci fosse un vuoto nel pensiero urbanistico. Ho lasciato la Colombia quando avevo vent’anni, adesso ne ho 64. All’epoca, in America Latina, la popolazione era urbana al 30 per cento e rurale al 70%. Oggi, oltre quarant’anni dopo, i cittadini sono l’86 per cento e i rurali solo il 14%. Negli Stati Uniti vive in città l’87% della popolazione, in Italia e in Europa all’incirca il 75%. La questione delle città è diventata centrale. In Cina ogni mese nasce una città dalle dimensioni equivalenti a New York. Cito spesso un discorso pronunciato nel 2009, alla conferenza dei sindaci degli Stati Uniti, dall’ex sindaco di Denver, Wellington Webb: “L’Ottocento era il secolo degli imperi, il Novecento quello degli Stati nazionali. Il XXI secolo sarà il secolo delle città”. E il concetto di città in 15 minuti risponde alle necessità di rendere umane queste città che spesso megalopoli gigantesche. Parte del successo universale di quest’idea dipende forse dal fatto che è agnostica, per così dire, dal punto di vista politico: interessa a sindaci di centrosinistra come Anne Hidalgo a Parigi e Beppe Sala a Milano, e a un sindaco di destra come Horacio Larreta a Buenos Aires. È un concetto che può e deve essere adattato a livello locale, a seconda delle realtà specifiche.

‘La città dei 15 minuti’ non è un’utopia slegata dai dati concreti. Una delle parti più interessanti del suo libro è quella in cui lei racconta la realtà urbana contemporanea, fatta di concentrazioni enormi. Dall’iper metropoli ‘San-San’ (San Francisco-San Diego) con 68 milioni di abitanti, all’iper-agglomerato virtuale BosWash (Boston-Washington) che ne conta 70 milioni. Poi c’è la ‘banana blu’, la dorsale europea cara al geografo Roger Brunet, che va da Londra a Milano. Non può sembrare paradossale parlare di ‘città dei 15 minuti’ in queste condizioni?
In realtà proprio l’esistenza di queste megalopoli rende indispensabile promuovere la prossimità e la città dei 15 minuti. Adoro le fotografie dell’Agenzia spaziale europea che mostrano chiaramente questa dorsale da Londra a Milano. Ma l’iper-metropolizzazione è in marcia ovunque, da Tokyo a città del Messico a Lagos, in Nigeria. Proprio per questo non dobbiamo rassegnarci a dimensioni disumane e, al contrario, favorire la vita di quartiere. In questo l’Italia, con la sua storia fondata sui Comuni, può mostrare la strada. Io sono un grande ammiratore dell’Italia e della riflessione teorica sul tempo della città. Ma anche una delle immagini più celebri dell’Italia nel mondo, Marcello Mastroianni e Anita Ekberg nella fontana di Trevi, in fondo parla della riappropriazione dello spazio urbano.

Il Covid non ha messo in discussione il modello delle città? In Francia in particolare si parla molto di fuga dai centri urbani, dei giovani professionisti che approfittano delle tecnologie digitali per lavorare lontano dagli uffici, magari in villaggi sul mare o in campagna.
È vero, in quei giorni della pandemia c’era chi annunciava la fine delle città e il ritorno alla vita di campagna. Credo sia un miraggio, le città restano i luoghi centrali dove si produce ricchezza. Ma i modi di vivere stanno cambiando, i giovani vogliono lavorare in modo diverso, con weekend più lunghi e più tempo da dedicare agli affetti. Tutte trasformazioni che a mio avviso rendono ancora più efficace l’idea della città dei 15 minuti.

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