25 maggio 2018

Anni luce (Bonus track)

– di Andrea Pomella –
Amico, sei lontano. E la tua vita
ha intorno a sé colori ch’io non vedo.

(Sandro Penna)

L’incontro è fissato per le nove di sera a largo Lanciani. Prima di uscire di casa ho verificato che il Gregory’s Inn fosse ancora lì come un tempo: «Dal 1983 la prima birroteca di Roma» è scritto sulla homepage del sito.
Una gallery fotografica mostra il vecchio corridoio che sfocia in una saletta, il bancone con le spine gocciolanti, gli arredi in legno scuro, le pareti tappezzate di quadri, specchi, bandiere con i loghi di birre di tutte le nazionalità.
Quando salgo in macchina e accendo la radio, neanche a farlo apposta passa About a Girl dei Nirvana, il brano che apre il famoso MTV Unplugged in New York che si tenne il 18 novembre 1993.
Sulla Tangenziale Est il flusso delle luci dei fari è scorrevole, il cielo della notte comprime Roma come un enorme wok in ghisa capovolto.
È il 5 gennaio del 2018, il primo venerdì dell’anno; ho quarantaquattro anni e quattro mesi e un appuntamento con un vecchio amico. Parcheggio in una via senza luci, mi annodo la sciarpa al collo e faccio il giro dell’isolato. Sotto l’insegna del Gregory’s Inn vedo la sua sagoma snella, la testa china sul telefono, il naso arcuato, il profilo che mi ricorda lo Zanardi di Andrea Pazienza. Alza lo sguardo e muove i suoi enormi occhi verso di me, poi mi viene incontro sorridente.
Prima ancora del suo aspetto è il tono basso e tonante della sua voce a riportarmi indietro nel tempo. Q non è cambiato, si è ripulito, questo sì, ma la faccia è la stessa, e anche la corporatura, forse è perfino dimagrito. I capelli sono cortissimi e completamente grigi ma lo si nota solo se ci si vuole far caso. La vera novità è nell’abbigliamento: le vecchie gloriose giacche di pelle hanno lasciato il posto a un anonimo giubbotto antivento da trekking e un maglione Napapijri rosso scuro.  Rispetto al giovane con un taglio di capelli assurdo, bracciali rigidi ai polsi, abiti da rockstar, ora è un uomo di mezza età che nessuno si volterebbe a guardare con l’incredulità che suscitava venticinque anni fa.
Meglio così, penso. Prima di questo appuntamento il mio principale timore era dovermi imbattere in una sorta di infelice parodia di Q.
Ci scambiamo qualche complimento sullo stato di forma complessivo ed entriamo in birreria.
Q mi fa notare che anche la barista è la stessa: «C’era sempre lei a quel tempo», dice. Quel tempo adesso è nella tasca del mio cappotto. Il primo gesto che farò sarà restituirglielo. O perlomeno provare a farlo.
Abbiamo organizzato questo incontro perché ho assolto al compito che lui mi aveva affidato, ossia ho scritto, e la nostra storia adesso è racchiusa in centosessanta pagine e una foto di copertina che ritrae la sopraelevata sotto cui ci rintanavamo a bere whisky alle otto del sabato sera.
La prima copia che mi ha spedito l’editore è per lui. Mentre Q si sfila il giubbotto e prende posto, estraggo il libro dalla tasca del cappotto e con un gesto plateale lo poso sul tavolo. «È per te», dico.
Q sorride, il suo vecchio sorriso folle e infantile.
Afferra il libro, lo volta, lo sfoglia, legge la dedica e sorride ancora.
«Non sono venuto a mani vuote», dice. «Anch’io ho qualcosa per te». Fruga nella tasca del giubbotto e ne estrae una pendrive.
Mi dice che dentro ci sono delle foto del nostro viaggio e un montaggio che si è divertito a fare con un piccolo software per presentazioni fotografiche con effetti speciali e musica di sottofondo.
Un cameriere ci porta i menù, passiamo qualche minuto a sfogliarli senza in realtà leggere nulla di ciò che c’è «Qui ci facevamo il sommergibile», dico «Ti ricordi?». «Come no», risponde Q.
Il sommergibile. Si prendeva un boccale da un litro e un bicchierino da shot. Si versava il whisky nel bicchierino e lo si infilava capovolto fino ad appoggiarlo sul fondo del boccale.
Poi si rovesciava di nuovo il boccale, in quel modo il whisky restava all’interno del bicchierino da shot. A quel punto si versava la birra nel boccale, e il bicchierino da shot per via della spinta idrostatica iniziava a fluttuare sul fondo del boccale, rilasciando lentamente il whisky.
«Ma ormai non bevo quasi più», aggiunge. «Esco solamente due volte l’anno con una mia cara amica e ci stracciamo». Sbirciamo ancora un po’ nel menù inutilmente complicato in cui si susseguono nomi e tipologie di birre da amatori. Alla fine ordiniamo due semplici medie chiare.
Guardo Q, ha un’aria incredibilmente assennata. Per tutti questi anni ho creduto che fosse impazzito, che l’abuso di acidi lo avesse reso folle, che trascorresse le notti a fissare il pavimento della sua stanza chiedendosi perché cazzo fosse diventato molle come un materasso ad acqua.
Inizia a raccontarmi di sé, mi dice che è sposato da una decina d’anni, non ha figli, ha un gatto e vive in un paese a trenta chilometri da Roma, non proprio nel paese, ma in un hinterland senza nome dove le case costano meno, mi dice che ha quasi finito di pagare il mutuo.
Lavora da vent’anni in un McDonald’s, sua moglie l’ha conosciuta lì. Lavorano entrambi su turni, spesso capita loro di incontrarsi di notte sull’uscio di casa; uno rientra dal turno di chiusura, l’altra esce per il turno di apertura. «Questo lavoro non ti permette di avere una vita sociale», mi spiega freddamente, senza mostrare l’ombra di un rimpianto. «Però non mi lamento eh, è un mestiere come un altro».
Passa il tempo libero leggendo i classici della letteratura. «Ho scoperto intorno ai trent’anni il piacere della lettura, così sto cercando di rimettermi in pari con tutti i libri che non ho letto ai tempi della scuola.» Gli chiedo della chitarra. Scuote la testa.
«È da qualche parte in cantina, non l’ho più toccata». Mi confessa che suonare lo fa stare male, l’ultima volta che ha imbracciato la chitarra gli è salito un tale risentimento che ha finito per sferrare un pugno sulla cassa armonica. «Quando eravamo ragazzi, suonare mi aiutava a sfogare la rabbia. Se una cosa ti fa male devi smettere. È come con le sigarette. A proposito, sai che non fumo più?».

Sorseggiamo le birre lentamente. Q sfoglia il libro e annuisce, poi ride, la sua perfetta, inimitabile risata paranoica, l’ultimo residuo della sua follia giovanile. Lo guardo e mi chiedo dove sia finita tutta quella follia, la schizofrenia che rendeva ogni suo atteggiamento inspiegabile.
Mi dico che una tale, formidabile quantità di energia dev’essere confluita in qualcosa, non può essere stata semplicemente domata dallo scorrere del tempo, se così fosse mi troverei ora al cospetto di un compressore atomico. Fatico a immaginarlo la domenica pomeriggio seduto in poltrona a leggere Il conte di Montecristo con un gatto che gli ronfa sulle gambe.
«E la moto?», gli chiedo.
Scuote la testa. «Distrutta». Mi racconta di un incidente che gli è capitato qualche anno fa, peggiore del nostro. «Un vecchio in autostrada ha messo la freccia per entrare in un autogrill senza accorgersi che alla sua destra c’ero io. Sette costole rotte, un trauma cranico e sei mesi in ospedale. Ho preso un sacco di soldi dall’assicurazione, a un certo punto mi telefonavano per dirmi: “Bastano o ne vuole ancora?”».
Mi chiede di Squama e gli altri: «Li hai più visti?». «No, pensavo che tu…». «Macché».
«In realtà Squama, una volta, sì, l’ho incontrato», accenno riafferrando un ricordo che credevo sepolto in qualche impervio recesso della memoria. Successe molti anni fa, passeggiavo insieme alla mia ragazza di allora, vidi questo ragazzo alto e biondo che camminava a stento sul marciapiede, sorretto a braccio da una donna.
Quando mi vide fece un sorriso sinistro, la faccia gli si storse e gli occhi divennero due spilli rossi.
Mi chiamò per nome, non credevo neppure che avesse mai saputo quale fosse il mio nome. Era rallentato, aveva qualcosa che non andava nei movimenti e neppure nel modo di ragionare. Indossava ancora il vecchio chiodo nero, ma aveva i capelli più corti e il volto imbolsito. Mi presentò la donna che lo teneva sotto braccio, era sua sorella. La donna mostrò evidenti segni di impazienza, mentre Squama si perdeva in discorsi sconclusionati. Alla fine lo strattonò senza tanti complimenti e lo spinse verso il portone di un’agenzia di pratiche automobilistiche.
Mentre si allontanava, lo sentii bestemmiare con la voce impastata. Q ascolta il mio racconto e alla fine, inaspettatamente, ride. «Che ti aspettavi?», dice.
Chiacchieriamo per due ore. Mi dice che Roma gli manca, che a volte la vita di provincia lo sfianca. Non riesco a immaginare il suo presente.
Q ai miei occhi si trascina dietro l’esoscheletro di un enorme passato, il suo e il mio. Il tempo che passa, i giorni, le ore, la sua quotidianità, i visi delle persone che vede ogni giorno, le strade che frequenta, i negozi, il cibo che mangia, i libri che legge, i programmi che guarda in tv, il cruscotto della sua macchina, tutto ciò che c’è di familiare per lui nella sua vita attuale è confuso per me in una nebbia di inesistenza.
Questo magma di smisurate insignificanze è ciò che contribuisce solidamente a fare la vita di un uomo, penso, mentre di Q io vedo solo la parte eroica, quel pugno di giorni in un tempo andato e perduto. Se guardo all’oggi, alla sua e alla mia vita, è inevitabile che finisca per domandarmi: «Dunque, era tutto qui?». Ma quello che penso è che vivere è un po’ come immergere le mani nella sabbia, setacciamo spiagge, solleviamo innumerevoli manciate di granelli che puntualmente scivolano tra le nostre dita, ciò che resta impigliato sui palmi bianchi delle nostre mani sono le pietruzze scintillanti, le valve delle conchiglie, le scaglie di antichissime strutture biologiche marine, ostinati residui minerali dentro cui si riflettono i raggi del sole, tutto, ma non i granelli di sabbia, tutto, ma non le micro-unità che costituiscono la materia del terreno sul quale camminiamo ogni giorno.
La serata scorre via tra placide chiacchiere, sorrisi mesti e due birre ciascuno.
Alla fine il conto lo paga lui. «Ci tengo», dice. Usciamo dal Gregory’s Inn e ci salutiamo velocemente.
I “mi ha fatto piacere”, ribattuti dagli “stammi bene”, si smarriscono nella notte.
Un abbraccio veloce, una pacca sulle spalle e ci dirigiamo ciascuno verso la propria macchina. Le nostre vite in campo lungo luccicano come i bagliori di una città contemplati dalla sommità di una collina.
Un mese dopo mi manda una foto che contiene una frase di un libro di Brombert, Victor Hugo e il romanzo visionario: «Solo un viaggio pericoloso al termine della notte può avvicinare al fatale enigma».
E poi una nota audio in cui riconosco immediatamente l’intro di Little Wing di Jimi Hendrix, suonata da mani esperte sulle corde di una vecchia chitarra acustica.
«Sei tu. Questa è la macchina del tempo», gli scrivo.
Passa un minuto come vent’anni.
«La chitarra mi vuole ancora bene».

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