1 settembre 2015

Imparare dai nostri figli

– di Kevin Jones –
© The Board of Trustees of the Tate Gallery
traduzione di Margherita Emo

Il nostro blog torna ad aggiungere confronti, idee, punti di vista. E a pochi giorni dalla riapertura delle scuole italiane, proponiamo il tema dell’educazione e dei suoi legami con l’arte e la cultura. La Tate Gallery ci ha concesso la riproduzione di un articolo pubblicato sul suo blog che ci ha colpito per la forza, la chiarezza e la saggezza con cui l’arte viene posta al centro di un sistema educativo che voglia valorizzare la persona. Gli spunti sono tanti, la voce dei bambini è potente. Buona scuola agli studenti e a tutti gli adulti…


Opinione: Imparare dai nostri figli

Il preside Kevin Jones ha visto di persona quanto l’arte possa cambiare la vita dei suoi alunni. In questo post spiega perché dobbiamo ascoltare il punto di vista dei nostri figli e dare spazio alla loro immaginazione.

A school group at the We Forgot the Lot! workshop, Tate Britain 2014 Photography by Susie Brady

«L’arte è una pausa per la mente. Un’oasi di pace nella confusione della vita. Mi permette di sperimentare pensieri ed emozioni in forma materiale.»

Così si esprime una mia allieva di dodici anni. Di rado, tuttavia, si usano parole come le sue per difendere l’arte. Piuttosto, per convincere i policy maker della sua importanza, si parla di soldi. Si afferma a gran voce che l’industria creativa produce 77 migliaia di miliardi di sterline, il 5 per cento della nostra economia. Oppure si evoca il rendimento dei bambini. Chi studia almeno una materia artistica ottiene voti migliori. O ancora, si chiama in causa la mobilità sociale: se uno studente di una famiglia a basso reddito prende parte ad attività artistiche, le probabilità che si laurei aumentano di tre volte. Si parla di democrazia: il numero degli studenti d’arte che partecipano alle elezioni è maggiore del venti per cento rispetto agli altri. O di comunità: gli stessi studenti hanno il doppio delle probabilità di dedicarsi al volontariato.

Sono tutti argomenti forti e veri, ma hanno poco a che vedere con i bambini. Si discute se le discipline cosiddette Stem (acronimo inglese per scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) siano o meno la chiave del futuro del Paese. C’è chi dice, infatti, che dovrebbero comprendere l’arte, diventando così Steam: che per la ricchezza del Paese è necessario integrare tecnologia e creatività.

Nel frattempo, appena fuori dal mio ufficio, un bambino piccolo piroetta intorno a un albero. «Cosa stai facendo?» gli chiedo. «Sono in orbita» mi risponde, con la stessa naturalezza con cui un albero mette le foglie. E perché dovrebbe essere altrimenti?

Nel mondo infantile, la scienza può benissimo essere una danza. Nel bambino volteggiante, inconsapevole della differenza tra arte e scienza, e capace di usare entrambe per esprimere la propria creatività, c’è una profonda saggezza. Da lui, come da tutti i bambini, abbiamo molto da imparare.

Chiedo ai miei alunni di nove anni perché l’arte è importante e la parola che sento ripetere spesso è «libertà», libertà di esplorare pensieri ed emozioni, di lasciare un proprio segno.

«È importante avere la possibilità di essere creativi, perché così si diventa liberi di pensare. Nell’arte si possono prendere tutte le direzioni che si vogliono.»

«Quando disegno o dipingo, sento di potermi rifugiare in quello che sto rappresentando.»

È il cambiamento del paesaggio dell’infanzia a determinare questo bisogno urgente di «libertà». Un terzo dei bambini non si è mai arrampicato su un albero, un quarto non si è mai rotolato giù per una collina, un terzo non ha idea di come costruire una capanna e quasi la metà non ha mai fatto una collana di margherite. Secondo un rapporto del NSPCC, un ente di beneficenza contro gli abusi sui bambini, nel 1999 l’80 per cento dei genitori non permetteva ai figli di giocare nel parco senza essere accompagnati. Immagino che adesso la percentuale sia ancora più alta. La distanza per cui i bambini possono allontanarsi liberamente da casa, a quanto pare, è un nono di quella che era nel 1970. Nel 1971 un bambino medio di sette anni andava da solo ai negozi e a trovare gli amici. Nel 1990 quella stessa libertà si raggiungeva a dieci: in soli diciannove anni i bambini avevano perso trentasei mesi di libertà. Da allora ne avranno persi altri.

Oggi più che mai dobbiamo creare per i nostri figli uno spazio dove possano esplorare se stessi e il loro mondo, uno spazio sicuro in cui correre rischi e sfidarsi, uno spazio per l’immaginazione.

«Mi piace scolpire perché lì tutto è possibile e, mentre lavoro, mi spuntano le idee in testa.»

I nostri figli gioiscono nella loro facoltà di creare, modellare e reimmaginare il mondo. Ma abbiamo ridotto l’orizzonte dell’infanzia, dando vita alla generazione più rinchiusa di sempre. Confinati in casa o nella loro stanza, i bambini sono spesso lasciati liberi di vagare nei teatri di morte dei videogame o di avventurarsi in un bordello on-line. Ogni due giorni sulla rete si accumula una quantità di informazioni nuove pari a quella prodotta dall’inizio dei tempi al 2003. I bambini ne sono bombardati. Un alunno di nove anni mi racconta le sue profonde preoccupazioni per la guerra, la deforestazione e il riscaldamento globale. Alla sua età non avevo paure di questo genere. Più che in qualsiasi altra epoca, i bambini di oggi hanno bisogno di tempo per assimilare se stessi e il mondo, per vedere le cose come sono e sognare come dovrebbero essere.

Pupils from St John’s College School, Cambridge painting the water lilies in the Quiet Garden Courtesy St John’s College School, Cambridge

Un decimo delle fotografie mai scattate è stato scattato l’anno scorso, e Internet ne è pieno zeppo. I nostri figli sono sottoposti a un flusso di immagini senza precedenti. Devono imparare a leggere e ad analizzare il mondo visivo, a vedere con sentimento e meraviglia, a fare collegamenti e a riflettere.

Quasi la metà dei quattordicenni e quindicenni dichiara di essere dipendente da Internet. L’aumento vertiginoso del disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) è lo specchio di un mondo troppo pieno di «rumore» sensoriale. Ai bambini serve tempo per riposarsi, per stare in silenzio. Come dice la mia dodicenne a proposito dell’arte:

«Un’oasi di pace nella confusione della vita. Mi permette di sperimentare pensieri ed emozioni in forma materiale.»

Guardate i miei alunni che dipingono ninfee per il progetto «Monet: la natura come ispirazione» e vedrete la tranquillità di cui hanno bisogno. Un’altra parola che ricorre quando i bambini di nove anni parlano dell’arte è «emozione».

«L’arte mi permette di far uscire le mie emozioni, soprattutto se sono arrabbiato.»

«Quando mi arrabbio, prendo l’album da disegno e mi metto a disegnare o a dipingere. Uso spesso colori scuri e mi tranquillizzo. Mi concentro su quello che faccio e riesco a chiudere fuori ogni pensiero. Dopo va tutto un po’ meglio.»

Parlano soprattutto di emozioni forti, emozioni che rischiano di sfuggire al loro controllo nel momento in cui il mondo dell’infanzia si fa troppo minaccioso.

Ci troviamo ad affrontare un aumento di circa il 30 per cento annuo del numero di bambini e di adolescenti che richiedono cure per problemi di salute mentale. Attualmente, nella fascia d’età compresa tra i cinque e i sedici anni, un soggetto su dieci presenta un disturbo mentale diagnosticato. Solo l’anno scorso, il numero dei ragazzi tra dieci e quattordici anni curati dal servizio sanitario nazionale per autolesionismo è salito del 30 per cento. È come se sul lido dell’infanzia si fosse abbattuto uno tsunami d’ansia.

In un sistema scolastico che definisce chi siamo in base ai voti che otteniamo, l’ansia da prestazione dei bambini è più elevata che mai. Temono di più il fallimento, anticipato o percepito, e sviluppano voci interiori altamente critiche. Assediati da immagini di perfezione, da mode e finti desideri, alle prese con relazioni virtuali a colpi di snapchat con amici conosciuti e meno conosciuti, e incollati ai loro Game Boy, i nostri figli perdono facilmente contatto con se stessi, non sanno più tanto bene chi sono e chi dovrebbero diventare, si fanno travolgere.

Schoolchildren with Gerhard Richter’s Two Sculptures for a Room by Palermo 1971 at Tate Modern, 2014 Photograph by Lucy Dawkins © Tate

Quando il mondo dell’infanzia minaccia di inghiottirli, l’arte aiuta i bambini a scoprire e a ordinare le emozioni in modo sicuro, a esprimerle e, fino a un certo punto, a dominarle. Dipingendo, i bambini riescono a rappresentare le proprie emozioni forti, anziché esserne travolti. Con parole loro, i miei alunni parlano dell’arte come di una forma di contenimento, di contatto e di guarigione. I nostri figli arrivano a scuola come hanno sempre fatto, portandosi dietro nuvole di creatività, curiosità, meraviglia e affetto stupefacenti. Ci sarà tutto il tempo per parlare loro di come contribuire all’economia, alla produttività e al progresso. Prima, però, impariamo noi qualcosa da loro.

Delle molte voci che reclamano un posto centrale per la creatività nel percorso scolastico, nessuna è tanto potente quanto quella che si leva, ricca di pensieri e di emozioni, dal cuore stesso dell’infanzia, raccontandoci che posto ha l’arte nella vita dei nostri figli. Ascoltiamola, quella voce, e facciamoci guidare dal bambino in orbita intorno all’albero, che sa come trasformare in danza ciò che ha imparato.

Kevin Jones è il preside della St John’s College School di Cambridge.

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