7 aprile 2017

I giovani sanno scrivere

-di Roberto Maragliano-

Pubblichiamo l’introduzione di Roberto Maragliano, docente di Tecnologie dell’Istruzione e dell’Apprendimento presso l’Università Roma Tre, a l’ebook dal titolo Cosa si prova? Te lo raccontoscritto e illustrato dagli studenti di tre classi dell’IISS “Leonardo da Vinci” settore Professionale indirizzo Comunicazione Pubblicitaria di Martina Franca.

Dopo la lettura di Il gioco della bottiglia. Alcol e adolescenti, quello che non sappiamo, di Alessandra Di Pietro, guidati in un percorso coinvolgente dalle loro insegnanti, gli studenti hanno scritto un libro digitale.

È a questa esperienza che fa riferimento Maragliano in una riflessione che si inserisce nelle discussioni e polemiche che hanno seguito la pubblicazione dell’appello di 600 professori universitari rivolto al governo e al Parlamento per mettere in campo un piano di emergenza che rilanci lo studio della lingua italiana nelle scuole elementari e medie perché, si dice, «I giovani non sanno più scrivere».

Alle linee di intervento proposte dai 600 – revisione delle indicazioni nazionali che dia grande rilievo all’acquisizione delle competenze di base; introduzione di verifiche nazionali periodiche durante gli otto anni del primo ciclo – Maragliano risponde che l’esercizio scolastico tradizionalmente inteso non è sufficiente, serve altro.

«Ciclicamente, grosso modo ogni cinque/sei anni, l’opinione pubblica nostrana è scossa dalla notizia, sempre presentata come drammaticamente vera, che i ragazzi non sanno scrivere. E dopo? Per un po’ si va alla ricerca della colpa poi, di solito, si trova la soluzione di scaricare tutte le responsabilità sui piani più bassi dell’istituzione scolastica. Non sanno scrivere, si sostiene, perché non hanno le basi, e la colpa, di conseguenza, è della scuola che sta alla base: a seconda del punto di osservazione e denuncia, sarà la primaria, o la secondaria di primo grado; dall’alto dell’università si arriverà a dire che tutto il torto è imputabile alla scuola tutta.
Proprio in questo fine inverno 2017 a sostenere l’accusa e a mettere sotto processo studenti e docenti sono addirittura in seicento, tra universitari e parauniversitari, solleciti firmatari di un pubblico appello ma anche immemori del fatto che a loro in primo luogo sarebbe spettato il compito di preparare i docenti della scuola.
Non intendo negare qui il contenuto di questa più recente denuncia e delle altre che l’hanno preceduta nel tempo.
È anche esperienza mia personale che non pochi giovani arrivano fino alla tesi di laurea con una capacità di scrittura limitatissima, pericolante, mai seriamente intercettata e sottoposta a cura.
E tutto questo avviene benché, negli attuali documenti pubblici dell’amministrazione, si faccia un gran parlare di “scuola delle competenze”.
Personalmente condivido anche l’idea che la colpa maggiore di questo stato di cose sia della scuola.
Dove mi differenzio dai tanti che pontificano è in questo: i seicento e i loro seguaci sostengono che la scuola fa poco per la scrittura, io, invece, dico che fa troppo per la scrittura.
Chiarisco: fa troppo per sostenere una scrittura che è soltanto scolastica e che fuori non ha diritto di esistenza.
Parlo del tema, cioè di un genere scrittorio che soltanto chi vive dentro l’universo pedagogico conosce e pratica, ma che pochissimo ha, in sé, delle caratteristiche funzionali, pragmatiche e sociali della comunicazione scritta.
Anni fa, molti anni fa la si considerava, quella del tema, una pratica da revisionare o addirittura abbandonare, per consentire alla didattica di trattare comportamenti di scrittura più vicini a quelli ‘mondani’: dopo tanto discutere e poco sperimentare si arrivò a proporre altre tipologie testuali, del tipo di quelle che compaiono nelle prove scritte di italiano dell’esame di stato. Ma, a distanza di tempo, sembra che ben poco sia cambiato, nella coscienza dei più, sia di chi fa scuola sia di chi critica chi fa scuola.
Il tema, bistrattato e sbeffeggiato, s’è preso una bella rivincita mantenendo, sotto mentite spoglie, la sua identità di incrollabile monumento alla scrittura scolastica.
Né va dimenticato che sotto sotto in molti che si professano educatori agisce il residuo antipositivistico e tardoidealistico che vede nella scrittura un esercizio di originalità individuale per il quale non sono proponibili conformistici modelli.
Certo, a scuola si scrive poco, soprattutto nella secondaria e pochissimo, pressoché niente si scrive nella formazione superiore. Ma forse lì e là si legge anche troppo, soprattutto di astratta manualistica.
Le tre cose, anzi le quattro messe assieme (poco esercizio e troppo scolastico, dose eccessiva di grammatica manualistica, scrivere come esercizio più spirituale che materiale) influiscono e non poco sulla situazione lamentata.
Allora, com’é che i ragazzi e le ragazze dell’esperienza che qui viene presentata mostrano di saper scrivere? Semplicemente perché si sono trovati in una condizione che ben poco, quasi niente aveva e ha, ai loro occhi, di esercizio scolastico.
Hanno letto un libro che parlava di loro e a loro, su di un argomento “reale” che, come si suole dire, “scuote le coscienze”, a iniziare dalle loro. Sono stati invitati a narrare liberamente delle esperienze personali, anche condendole di immaginazione, e ad arricchire questo scrivere (e agire!) con una cornice visiva e sonora.
Sono stati messi nelle condizioni di capire che se dovevano adottare un travestimento era per comunicare di più e non già per evitare di comunicare. Ma, soprattutto, hanno fatto tutto questo tenendo ben fermo un obiettivo “pubblico”, davvero poco scolastico, quello di dar corpo e vita a un libro: un libro vero, non importa se digitale o cartaceo (altra sterile discussione in cui l’intellettualità nostrana dà oggi sfoggio di sé), comunque un qualcosa da far girare fuori e in cui e per cui riconoscersi e cercare riconoscimento.
Al di là dei prontuari scolastici hanno avuto obiettivi chiari, modelli praticabili, intenti condivisi.
A queste condizioni, sanno scrivere.»

Chiudiamo con le parole di Maria Rosaria Chirulli, responsabile del progetto dell’istituto di Martina Franca:
«Il processo di apprendimento non sempre (direi quasi mai) segue strade segnate, formali, ma si configura come un’avventura esplorativa lungo sentieri non noti, in cui la decisione intuitiva, il disordine, l’errore, la soluzione trovata per caso, conducono alla meta. Anzi, alle mete: non è stato uno, infatti, l’obiettivo raggiunto con questo progetto, ma molti altri e questi molti altri – e qui viene il bello – non erano stati pianificati».

Nel prossimo post, il racconto dell’esperienza didattica che ha portato alla realizzazione dell’ebook Cosa si prova? Te lo racconto.

Immagine di copertina: fotogramma tratto da La classeEntre les murs, Laurent Cantet (Francia, 2008).

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