10 aprile 2015

Dalla Siria al Myanmar. Fondamentalismo buddhista e islam

– di Ilaria Benini

In tutto il mondo i media stabiliscono di cosa parlare e come farlo, influenzando la nostra percezione di quello che accade. Così se Shady Hamadi titola un suo pezzo facendo riferimento a fanatismo e dittature nel mondo arabo non ci sorprendiamo. Ma scoprendo le facce della Siria che ci racconta il nostro autore è invece inaspettato ed evocativo incontrare siriani che parlano dei musulmani perseguitati in Myanmar (ex Birmania) da un fanatismo che prende alla sprovvista, quello legato alla religione buddhista. Le narrazioni ci aiutano a infrangere gli stereotipi e ci impongono a dare una seconda occhiata a cosa succede nel resto del mondo, provando a capire meglio.

da East del 1 novembre 2013

Un ciclone umano ha travolto la popolazione musulmana del Myanmar. Un ciclone armato di insicurezza e machete, fomentato da una forma di integralismo buddhista diffusasi sempre più liberamente da quando il Myanmar ha intrapreso il suo percorso di transizione verso la democrazia.

Violenze inaudite contro la popolazione rohingya, minoranza musulmana non riconosciuta dal Myanmar né da altri stati, dunque apolide, si sono verificate a partire dal 2012, proprio mentre l’attuale governo presieduto dall’ex generale U Thein Sein intraprendeva riforme progressiste, nell’ottica di garantire più diritti ai suoi cittadini.

A giugno e ottobre 2012, nel Rakhine State- al confine con il Bangladesh (Myanmar occidentale) – si sono verificati violenti scontri tra rakhine buddhisti e rohingya. I buddhisti li chiamano bengali,  estremo tentativo di negarne l’esistenza attraverso il rifiuto del nome che ne determina l’identità. In totale persero la vita almeno duecento persone, circa cinquemila case ed esercizi commerciali furono bruciati e centoquarantamila persone sono ancora oggi profughe.

Non hanno libertà di ricostruire la propria casa né di far ripartire l’attività che permetteva loro di condurre vite accettabili, nonostante le perenni intromissioni delle autorità e delle forze dell’ordine. I rohingya non hanno mai condotto un’esistenza serena, tra deportazioni forzate e imposte ai limiti dell’immaginabile, tra cui quella per ottenere il diritto a sposarsi o di avere più di due figli.

L’ONU li definisce “uno dei popoli più perseguitati del mondo” e Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto  dettagliato in cui si parla esplicitamente  di pulizia etnica. Il governo birmano ha risposto negando ogni responsabilità.

Oggi il mondo segue con attenzione l’apertura economica e il grande potenziale offerto da questo paese rimasto pressoché isolato per quasi cinquant’anni. Ma agli interessi si accompagna anche la preoccupazione di chi teme che un cambiamento troppo rapido possa ricadere negativamente sulla popolazione, violandone paradossalmente i più elementari diritti umani.

Lo scenario è andato aggravandosi nel corso di quest’anno, quando gli scontri si sono spinti nel centro e nel nord del paese, allargando l’obiettivo a tutta la popolazione musulmana, formata sia da minoranze etniche (rohingya, kaman, cinesi hui, indiani e pakistani) che da birmani.

Tra molti buddhisti è diffusa la credenza che i musulmani, oggi il cinque per cento della popolazione, intendano rovesciare la millenaria tradizione buddhista del Myanmar.

Molti media internazionali hanno puntato il dito contro il “movimento 969”, una corrente integralista all’interno della Sangha, l’ordine monastico birmano. In piena continuità con l’atteggiamento xenofobo e isolazionista che è stato proprio della giunta militare birmana, un gruppo di monaci sta percorrendo il paese organizzando comizi e vendendo DVD di propaganda che vedono protagonista U Wirathu, soprannominato il Bin Laden buddhista. Ma percorrendo tracce meno evidenti, entrando in piccoli monasteri di Yangon o nei villaggi, si trovano le altre voci del monachesimo birmano, innegabilmente una delle chiavi del consenso della popolazione. Ashin Sopaka, monaco e leader del movimento Peace in Burma Now, si dice “molto sospettoso, scontri di questo tenore non si sono mai verificati prima tra le nostre comunità. Sono portato a credere che sia un disastro pianificato da menti umane. L’unica prova che ho riguarda i recenti fatti di Okkan, dove gli aggressori avevano l’aspetto di soldati dell’esercito birmano e la polizia è rimasta a guardare senza intervenire”. L’inazione della polizia di fronte ai palesi atti criminali, testimoniata anche da un video reso pubblico dalla Bbc, è un segno eloquente, ma sebbene le speculazioni di studiosi e analisti inizino ad essere sempre più sofisticate – indicando alcuni ex generali come i manovratori degli attacchi – Ashin Sopaka reclama una maggiore attenzione dedicata a risolvere l’emergenza, piuttosto che a infiammare la popolazione. Lo scorso giugno, l’imam U Hla Myint della moschea C.S. Arkatti Jamah di Yangon ha ospitato un incontro tra monaci e dotti islamici. Sulla soglia della sua moschea, con tono sommesso parla della sua comunità “molto preoccupata e spaventata“, spiegando che l’iniziativa voleva “lanciare un invito pubblico a tutti i monaci buddhisti perché vengano a visitarci nelle nostre moschee, in qualunque momento. Abbiamo bisogno di dialogare innanzitutto tra di noi. Stiamo anche lavorando per fare pressioni sul governo perché intervenga a placare le tensioni.” La soluzione è nelle mani delle forze politiche, ma la stessa Aung San Suu Kyi si è tenuta ai margini della questione per timore di perdere i preziosi voti della comunità birmana buddhista, cui la stessa Suu Kyi appartiene e base del consenso per poter correre alle presidenziali del 2015.

Il Myanmar sta affrontando un cambiamento unico a una velocità incontrollabile: tanti piccoli segmenti del vivere quotidiano vengono stravolti senza che si sappia con certezza cosa succederà nei prossimi anni. La parola democrazia è sulla bocca di tutti, ma non è chiaro cosa significhi. I sospetti accumulati in cinquant’anni di  censura vorrebbero il rispetto di tempi più lunghi, più umani, per imparare a vivere sotto un nuovo regime. Intanto i rohingya continuano a morire sotto il monsone battente nei campi ONU e in quelli non autorizzati, mentre la popolazione musulmana vive nel timore dell’ennesima scintilla pronta a scatenare la rabbia e la frustrazione dei buddhisti.

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