24 febbraio 2017

Chi ha paura dello straniero? – parte I

-di Enea Brigatti-

Straniero, se camminando ti imbatti in me e hai voglia
di parlarmi, perché non dovresti farlo?
E perché io non dovrei parlare con te?

Da queste parole di Walt Whitman vorrei cominciare a raccontare Chi ha paura dello straniero?, una tavola rotonda organizzata dalla Libreria Bodoni – Spazio B attorno al tema del razzismo, del diverso.
Un incontro che fa da pilota per un progetto più ampio, che Giulia Perona, la mente dietro gli eventi della libreria, spiega così:
«Il 2016 è stato un anno di grandi cambiamenti politici, in cui la parola paura è risuonata infinite volte. Si è diffusa nelle immagini in televisione, nei commenti sui social network, nelle discussioni tra le persone. Sembra che ormai non se ne possa più fare a meno. Ma perché abbiamo paura? Perché non abbiamo più gli strumenti per capire la realtà?
È per questo che in Libreria Bodoni il 2017 vuole essere un anno in cui rileggere le paure per affrontarle e analizzarle, creare un dibattito, offrire alle persone un luogo in cui sentirsi  accolte, in cui le proprie domande troveranno spazio, tempo e interlocutori.
Un percorso attraverso le paure della contemporaneità, gli interrogativi e le complessità che un periodo di transizione come quello che stiamo vivendo porta con sé: “Quello che non conosco mi fa paura”.»

Quando arrivo in libreria tutte le sedie sono occupate, mi accomodo in un angolo e schiaccio il pulsante REC sul mio registratore portatile.


Il primo a prendere la parola è Fabio Deotto, romanziere (il suo Condominio R39 è uscito per Einaudi nel 2014), traduttore, biotecnologo e giornalista per innumerevoli testate, da Pagina 99 a La Lettura.
A lui il compito di iniziare il discorso, partendo dalla questione afroamericana negli USA, una “questione ancora aperta” come recita il titolo di un celebre libro di Ta-Nehisi Coates.
Ed è proprio da un libro di Coates che inizia l’analisi di Deotto.

«Quando sono successi i fatti di Ferguson, gli omicidi della polizia ai danni di ragazzi di colore, con le relative sommosse che ne sono seguite, notavo uno spaesamento generale nel nostro Paese: da qui sembrava che gli Stati Uniti fossero sull’orlo di una guerra civile.
Questo perché noi europei non abbiamo gli strumenti adatti per comprendere esattamente quanto sia complessa la questione afroamericana, un argomento che si può capire solo partendo dal tema dello schiavismo.
Esistono due modalità per trattare questo tema: da una parte abbiamo una versione della storia semplificata, consolatoria, rassicurante, che vede nell’emancipazione degli schiavi e nell’introduzione del Tredicesimo Emendamento la fine del problema. Secondo questa versione tutto quello che è successo dopo il 1865 è solamente uno strascico fisiologico che sta portando mano a mano a una congiuntura fra i due mondi. Unaversione che però si può raccontare al massimo al pub, davanti a una birra, perché la situazione è molto diversa e questa analisi lascia fuori altri aspetti cruciali.
L’altra versione prevede una riflessionepiù approfondita,un confronto collettivo.
Il libro di Coates Tra me e il mondo (Codice Edizioni, 2016) riesce a fare da ponte fra queste due versioni della storia.
Quando è uscito mi trovavo a New York da qualche mese e ne sentivo parlare ovunque come di un libro fondamentale, necessario.
Un pomeriggio mi trovavo da Strand e l’ho acquistato promettendomi di leggerlo a breve.
Quella sera stessa mi sono trovato a passeggiare per Prospect Park con Irene Plagianos, una giornalista greca emigrata negli Stati Uniti che si è occupata spesso del movimento Black Lives Matter.
Irene mi stava raccontando della differenza fra il razzismo nei confronti degli afro-americani ancora legati agli strascichi dello schiavismo, e quello europeo, tendenzialmente più legato all’immigrazione: erano le due di notte, e a un certo punto è arrivata una macchina della polizia da cui si è sporto un tizio nerboruto che ci ha intimato di lasciare il parco, l’ora di chiusura infatti era passata da un pezzo.
Camminando verso casa Irene mi ha fatto notare che se fossimo stati entrambi di colore, la storia probabilmente avrebbe avuto un esito diverso e non ce la saremmo cavata con un semplice richiamo da parte dei poliziotti.
Così appena entrato nella mia stanza ho preso in mano il libro di Coates e non l’ho più lasciato: ne ho parlato in tutte le occasioni pubbliche in cui ne ho avuto la possibilità, l’ho regalato e consigliato a chiunque, ne ho scritto sui giornali.
Per Coates l’innesco per scrivere questo libro è stato vedere il figlio in lacrime dopo l’assoluzione degli assassini di Michael Brown, nel 2014.
Allora Coates si è domandato come reagire davanti al disagio di suo figlio: rassicurarlo, dicendogli che sarebbe andato tutto per il meglio sarebbe stato un atto disonesto.
Decide allora di scrivergli una lunga lettera appassionata e narrativa che si legge quasi come un romanzo, per raccontargli tutta la sua vita, partendo dall’infanzia a Baltimora dove ha imparato per la prima volta a essere considerato altro, passando per la propria presa di coscienza all’Università, l’incontro con la figura di Malcom X, la fascinazione per le Pantere Nere, costruendo così un quadro vivido della questione afroamericana negli Stati Uniti che può funzionare da ponte per capire quanto lo schiavismo influenzi ancora i rapporti fra bianchi – o come dice Coates, prendendo in prestito una locuzione di James Baldwin “coloro che si considerano bianchi” e afroamericani nella società USA.
Per comprendere meglio la situazione, però, è obbligatorio partire dalla storia: nel 1865 si firma il Tredicesimo Emendamento, che secondo la vulgata prevede che tutti i cittadini americani siano uguali davanti alla legge.
In realtà il Tredicesimo Emendamento recita: “La schiavitù o altra forma di costrizione personale non potranno essere ammesse negli Stati Uniti, o in luogo alcuno soggetto alla loro giurisdizione, se non come punizione di un reato per il quale l’imputato sia stato dichiarato colpevole con la dovuta procedura”.
Quel “se non come punizione” ha creato una stortura legale che permette in questo momento un razzismo una sorta di schiavismo istituzionalizzato all’interno di quella che è considerata la più grande democrazia del mondo.
I dati sulla questione sono agghiaccianti: negli Stati Uniti il 40 % dei carcerati è di origini afroamericane, che come comunità rappresenta poco più del 12 % della popolazione USA.
Dopo il 1865 si è tentato di ricostruire il paese reinserendo gli ex schiavi nel tessuto sociale nazionale, ma dopo la Ricostruzione, a partire dal 1877 gli Stati del Sud hanno introdotto leggi segregazioniste, con bagni e posti sul bus separati, si è tentato di dissuadere in maniera violenta la popolazione afroamericana a votare, si è azionata una macchina di demonizzazione nei confronti delle persone di colore che era funzionale al governo per giustificare un numero di arresti sempre maggiori.
A partire dall’introduzione del Tredicesimo Emendamento, il livello di incarcerazione della popolazione di colore ha subito un’impennata, con un regime di lavori forzati nelle carceri in congiuntura alla privatizzazione delle strutture carcerarie: il risultato sono persone incarcerate che si costringono a lavorare gratis per un privato.
La situazione è talmente grave che in Colorado hanno cercato di far passare un emendamento che doveva andare ad abolire lo sfruttamento della servitù involontaria, che di fatto è schiavismo legalizzato.
Non è passato perché scritto in maniera incomprensibile, di conseguenza in Colorado ci sono ancora delle prigioni che fungono da industrie.»


Per la seconda parte del suo discorso Deotto parte da un’altra pubblicazione di Ta-Nehisi Coates, Un conto ancora aperto, un saggio nato da un lungo articolo scritto per l'”Atlantic” sulla questione dei risarcimenti nei confronti dei discendenti degli schiavi liberati.

«Lo scorso 25 luglio, alla convention dei democratici americani, Michelle Obama durante un bellissimo discorso ha pronunciato una frase che ha fatto arrabbiare molti repubblicani: “Ogni giorno mi sveglio in una casa costruita dagli schiavi”, in riferimento alla Casa Bianca.
I repubblicani l’hanno accusata di voler rendere ancora più profonda la spaccatura sociale del Paese che i fatti di Ferguson avevano evidenziato in modo cruento. Ma la realtà è che non solo la Casa Bianca è stata costruita dagli schiavi ma l’intero Paese non potrebbe essere il paese che è attualmente, vantare la ricchezza e l’importanza che ha.
Lo storico David W. Blight nel 2008 ha calcolato che nel 1865 negli Usa c’erano 4 milioni di schiavi la cui manodopera aveva un valore a livello di risorsa economica di 3,5 miliardi di dollari, il corrispettivo di 75 milioni di dollari odierni, pari al totale degli introiti derivati dal compartimento industriale, infrastrutturale e produttivo dell’epoca.
Tra il 1619 e il 1865 gli schiavisti hanno approfittato di 222 milioni di ore di lavoro forzato per un totale d 97.000 miliardi di dollari.
Poi lo schiavismo è stato abolito, e il Paese è stato ricostruito su un principio di libertà: ma alcune cose non sono cambiate, alcune addirittura stanno peggiorando.
Anche qui i numeri servono a capire meglio: ad esempio, il patrimonio di una famiglia bianca è 13 volte superiore a quello di una famiglia di colore, e per l’Institute for policy studies ci vorrebbero 228 anni, affinchè a questo ritmo una famiglia nera possa aspirare agli stessi standard di una famiglia bianca. Di conseguenza un afroamericano ha un’aspettativa di vita di 75 anni mentre e i bianchi di 79, il 42 % degli afroamericani ha una casa di proprietà rispetto al 71% dei bianchi, il 9,32 % dei neri è disoccupato a fronte del 4,4 % dei bianchi.
La polemica sui risarcimenti è iniziata anni fa: nel 1865 in realtà il governo aveva espresso la volontà di dare 40 acri e un mulo come rimborso agli schiavi che erano stati sfruttati per anni, ma dopo appena un decennio questo provvedimento è stato abolito dal presidente Johnson. Da quel momento in avanti la questione non è mai arrivata a una soluzione: c’è chi ha calcolato che il gap che si è formato sia insanabile, chi ha pensato di individuare i discendenti delle famiglie di schiavi per dare loro cinquant’anni anni di istruzione e sanità esentasse, chi ha proposto un risarcimento monetario, chi come Obama stesso si è opposto, e non tanto perché il problema non sussista, ma esattamente per il contrario.
Per il Presidente uscente ridurre la questione a un risarcimento monetario annullerebbe il problema agli occhi di molti, mentre sarebbe necessaria una discussione approfondita, un discorso organico.
È la tesi di Coates, che sostiene sia necessario interrogarsi sui risarcimenti, non tanto perché sia impossibile individuare i discendenti degli schiavi, ma perché è necessario che il Paese si interroghi di fronte all’immagine di culla della democrazia e della libertà, quando invece ha costruito la propria ricchezza e il proprio sogno sulle schiene di milioni di schiavi.»

Passando ai fatti di stretta attualità, con l’imporsi dell’amministrazione Trump, Deotto ha fatto riferimento alla sua esperienza di abitante per qualche mese della città di New York.

«Una bolla avulsa dalla realtà, dove il 79% delle persone ha votato per Hillary Clinton e per tutta la campagna elettorale ci si trovava nei pub per ridere davanti ai discorsi di Trump trasmessi dalla televisione.
C’è uno sketch del Saturday Night Live andato in onda poco dopo il risultato delle elezioni che restituisce bene l’atmosfera che si è vissuta in campagna elettorale, dove un gruppo di amici della media borghesia progressista bianca si ritrova per guardare la maratona elettorale: quando arrivano i dati dal Kentucky esclamano tutti “Ovvio che Trump lì abbia vinto, in Kentucky sono tutti razzisti!”. A quel punto interviene l’unico afroamericano della compagnia, il comico David Chapelle: dicendo “Ah sì, davvero? Stanno tutti lì, solo in Kentucky?”.
Questo piccolo sketch è significativo per comprendere la spaccatura fra gli Stati Uniti urbanizzati delle coste est e ovest con la realtà dell’entroterra.
Si tratta di ampie zone in cui una grossa fascia di popolazione non vota e non avrebbe mai votato per Hillary: purtroppo in questa fascia rientrano anche molti afroamericani, a causa fra le altre cose di molti suoi atteggiamenti risultati inautentici nei confronti dell’elettorato di colore.
Bisogna ricordare anche che Bill Clinton è il responsabile della legge three strikes che stabilisce il carcere a vita dopo il terzo crimine penale,un provvedimento che rientra nel solco della carcerazione di massa.»

Per mettere un punto al discorso Deotto sceglie di citare un episodio che si lega a una teoria, quella della intersezionalità, poco conosciuta ma fondamentale:

«Esiste in rete una bellissima TED di Kimberlé Williams Crenshaw, avvocato e attivista per i diritti civili fra le più celebri d’America, la quale decide di fare un esperimento con la platea: fa alzare tutti in piedi e inizia a pronunciare nomi di persone di sesso maschile chiedendo agli spettatori di sedersi nel caso quel nome non accendesse alcuna lampadina. Di fronte a nomi come Tamir Rice e Eric Garner, nomi di ragazzi e uomini afroamericani uccisi dalla polizia, solo pochi si siedono; ma quando Crenshaw comincia a fare i nomi di persone come Aura Rosser e Meagan Hockaday, finiscono per sedersi tutti.
Questo episodio è esemplare per parlare della teoria dell’intersezionalità, elaborata nel 1989 proprio da Crenshaw, la quale sostiene che quando una persona si trova nell’intersezione fra due categorie marginalizzate paradossalmente si ritrova a essere emarginata dalle stesse persone, dagli stessi attivisti, che dovrebbero proteggere quelle categorie. Nel caso delle donne afroamericane, che rappresentano il 40 % delle persone di colore assassinate dalla polizia ogni anno, questa teoria si verifica in pieno: molti di noi conoscono il nome di Michael Brown ma non quello di Tanisha Anderson.
Lo stesso Coates, che nei suoi libri cita questa teoria e si schiera dalla parte delle donne, quando poi tratta i grandi casi di ingiustizie sociali nei confronti degli afroamericani, raramente utilizza esempi al femminile.»

Partita dagli Usa, la discussione si è spostata verso le nostre latitudini, per ragionare sulle dinamiche migratorie fra Europa, Africa e Medio Oriente, con Ababacar Seck, imprenditore e presidente dell’Associazione dei senegalesi di Torino, e con Norma Rosso, giornalista de “Il Post” e curatrice dell’audiodoc Rifugiarsi.

Ma per questa seconda parte vi diamo appuntamento alla settimana prossima, sempre sulle pagine pixelate del nostro blog.

Immagine di copertina: Five Day Forecast di Lorna Simpson.

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