8 settembre 2018

L’eredità di Orwell e le opere visionarie di Kaung Su

-di Ilaria Benini-

Eric Blair era nato nel 1903 in India da padre britannico, impiegato al Dipartimento dell’oppio del Servizio civile indiano, e madre francese, cresciuta in Birmania, dove il padre era coinvolto in avventurose imprese speculative.

La nonna materna viveva ancora a Moulmein quando Eric entrò nella polizia dell’Impero e dovette scegliere una destinazione per il suo servizio, così finì per partire per la Birmania, dove visse dal 1922 al 1927. In questi anni iniziò a diventare lo scrittore che conosciamo come George Orwell e proprio a questo periodo fu dedicato il suo primo romanzo, Giorni birmani, che raccoglie la sua critica al colonialismo.

C’è chi sostiene che nei suoi libri Orwell annunciò lo sviluppo della Birmania: una società coloniale trasformata, attraverso l’indipendenza e il colpo di stato militare socialista nel 1962, in una versione di La fattoria degli animali, e poi di 1984.

Nel contesto politico della Birmania sono emersi artisti locali con un approccio distopico e preveggente, che pur non avendo avuto la possibilità di essere esposti a idee provenienti dal resto del mondo, hanno sviluppato una propria critica silenziosa e di resistenza alle strategie di controllo assoluto e di privazione della libertà d’espressione che tanto ricordano le distopie guidate dal Grande fratello. Tra loro c’è Kaung Su, nato nel 1972, e autore di una collezione di opere d’arte caratterizzate da una forza visiva che esprime conflitto, il frutto di una riflessione sul futuro dell’umanità segnata dal pessimismo, dalla paura della degenerazione del comportamento umano, ma anche dalla capacità di relativizzare la storia dell’uomo rispetto al tutto.

Quando hai iniziato a fare arte nei primi anni ’90 qual era la tua visione del futuro del Myanmar?
Eravamo in un periodo buio, in cui sognavo un futuro migliore, anche se era quasi impossibile immaginare il possibile futuro del Myanmar. Ho iniziato a frequentare la State School of Fine Arts di Yangon nel 1992, un periodo infausto: la Rivoluzione 88 (nda: l’8/8/88 ci fu una grande rivolta e manifestazione di massa che venne repressa nel sangue dal governo militare) si trasformò in una disgrazia, il controllo aumentò, la censura era pressante e disonesta, influendo su ogni pratica artistica. Nella mia visione dell’epoca ogni aspetto della vita aveva tradito la propria integrità. È facile avere aspettative, ma è molto difficile che ci siano possibilità effettive. In quel periodo mi sentivo in una congiuntura storica in cui potevo soltanto aspettare di poter respirare finalmente libertà.

Il tuo lavoro come artista esprime preoccupazione per il futuro del mondo. Quali sono le tue paure più grandi?
Sono seriamente preoccupato per l’ambiente. Viviamo in un secolo disperato, in cui siamo testimoni dell’erosione della pazienza della natura. Il passato inquinato è tornato per perseguitarci e dobbiamo pagare il prezzo della nostra colpa: la civilizzazione non si forma dalle ceneri della natura devastata.
Gli astronomi hanno trovato centinaia di pianeti esterni al sistema solare nella nostra galassia e per quel che ne sappiamo la terra è l’unico luogo che abbia ospitato vita intelligente. Il nostro pianeta non può essere salvato a meno che distruggiamo il lato oscuro dell’umanità e la nostra spazzatura intellettuale. Le mie serie di dipinti e sculture «Mercury Rising», «Devastation» e «Urgent Threats» parlano non soltanto delle mie paure più profonde, ma affrontano una questione morale rispetto a ciò che stiamo perdendo.

Cosa vedi nel futuro? Credi che l’arte possa avere un ruolo per condizionarlo?
Nel calendario cosmico di Carl Sagan, tutta la storia umana si svolge negli ultimi secondi di vita del cosmo e il nostro viaggio evolutivo è molto breve, in scala cosmica. Qualsiasi creatura che testimonierà la scomparsa del sole tra 5 miliardi di anni non sarà umana. Non sono una persona ottimista e non ho nessuna speranza particolare per il futuro, nemmeno nel mio paese, dove la verità è che nulla è cambiato oltre la superficie. Spero che l’arte, e in particolare i progetti di arte pubblica, possano portare a una maggiore consapevolezza, ma per ora sono soltanto un whistleblower!

Come leghi il tuo particolare interesse per l’astronomia alla tua pratica artistica e alla tua immaginazione di ciò che accadrà nel futuro?
Come artista sono molto interessato a creare un disegno cosmico eterno. Osservo il cielo dal 1996 e non a caso la mia primissima mostra si intitolava «Space Art». I miei lavori sono perlopiù rivelazioni razionali sulle frontiere del cosmo, sull’impatto delle catastrofi, sulla casualità dell’evoluzione. Chi crede che il nostro pianeta esista in un magnificente isolamento si sbaglia: la nostra esistenza è plurale e legata alla gigantesca forza dell’universo. Una delle mie serie di lavori, «Colliding Worlds», si riferisce direttamente alla storia degli impatti astronomici sulla terra e non solo. Si è dimenticata l’esplosione Tunguska del 1908 in Siberia, ma il più grande rischio è che la civiltà umana possa essere distrutta interamente in qualsiasi momento dall’impatto inaspettato di un asteroide o di una cometa!

I libri di George Orwell sono stati a lungo proibiti in Birmania, poiché ricordavano troppo fedelmente la giunta militare che governava il paese. Credi abbiano influenzato la tua arte in chiave politica?
Non mi definirei un artista politico, i miei lavori sono sculture intellettuali basate sulla conoscenza. Conosco poche persone che abbiano letto i libri di Orwell. Personalmente sono tuttora colpito dalla frase«La libertà è schiavitù», tratta da 1984. Se prendiamo il caso del Myanmar è molto attuale e controversa ancora oggi.

Articolo comparso su il manifesto il 29/12/2016.

Immagine di copertina: particolare di Endangered #4 di Kaung Su.

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